I giovani non hanno bisogno di prediche, i giovani hanno bisogno, da parte degli anziani, di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo. (Sandro Pertini, dal discorso di fine anno, 31 dicembre 1978)
La Legge di stabilità 2016 ha introdotto le società benefit, ovvero enti giuridici privati che oltre a perseguire un lucro intendano perseguire anche un beneficio comune. Sebbene difficile da credersi, la normativa italiana secondo qualcuno stavolta sarebbe un esempio per l’Europa, e prende spunto da quella americana relativa alle B Comp (Benefit Corporation), ovvero modelli societari che nel mondo hanno già nomi altisonanti: Hootsuite, Kickstarter, Etsy, per citarne alcuni. In Italia, oltre la capofila Nativa, sono state recensite anche Fratelli Carli, Equilibrium, Treedom, Habitech, Little Genius International, Mondora, Dermophisiologique, la startup D-Orbit. Ma al di là delle definizioni e dei soggetti, cos’è esattamente una società benefit?
Il disegno di legge presentato da alcuni senatori (alcuni dei quali co-founder di Nativa) definisce le società benefit “società a duplice finalità, ossia di società che nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed ogni altro portatore di interesse. Tali finalità sono contenute nell’atto costitutivo o nello statuto della società, indicate nell’ambito delle attività dell’oggetto sociale, e sono perseguite dalla società attraverso una gestione responsabile, sostenibile, trasparente e mirata a bilanciare, da un lato, gli interessi dei soci e, dall’altro, l’effettivo perseguimento di effetti positivi, o la riduzione di effetti negativi, su uno o più dei suddetti ambiti”.
E a proposito di trasparenza amministrativa delle società benefit, l’allegato alla legge stabilisce indicazioni di massima circa gli standard di valutazione esterni cui queste società devono sottoporsi, come nel caso delle B Comp che sono tenute a pubblicare il beneficio ottenuto e a adottare degli standard riconosciuti a livello internazionale come il Benefit Impact Assessment (BIA). Nell’idea italiana di società benefit, oltre a identificare i criteri con cui si definiranno gli standard di valutazione, c’è anche l’obbligo di relazione annuale sull’attività di beneficio comune, che contenga: la descrizione degli obiettivi specifici e le relative azioni per il perseguimento; l’indicazione dei soggetti preposti al perseguimento degli obiettivi aziendali.
Al momento tuttavia non c’è molta chiarezza normativa circa l’operatività pratica di società benefit in Italia: resta fermo che una società benefit, in assenza di norme ulteriori, si costituisce sotto forma di una delle società indicate nel libro V, titolo V e VI del codice civile, quindi nulla di nuovo sul fronte della semplificazione. Non si legge neanche di vantaggi fiscali diretti legati alle società benefit, che siano espressamente indicati: è probabile che una società benefit abbia più facilità di acquisire finanziamenti pubblici in determinati settori rispetto ad altre forme societarie, ma nulla di più per ora. Ad ogni modo, la direzione intrapresa è giusta, resta da sistemare il percorso, al momento ancora un po’ lacunoso e per certi versi — ma è una mia opinione — più difficoltoso di quello previsto per una normale azienda a scopo di lucro.